Recensione di Riccardo Bramante
In una situazione geopolitica come l’attuale dove il Medioriente è il principale focolaio di guerre ed eccidi, sembra difficile poter scrivere qualcosa al riguardo senza prendere una posizione per l’una o l’altra parte; eppure Roberto Patruno ci riesce con questo suo ultimo libro “Nel nome di Allah”, edito da Grauseditore, in cui i fatti sono raccontati nella loro cruda realtà ma senza dare giudizi o emettere sentenze ma, anzi, trovando anche il modo di far nascere l’amore e la speranza in mezzo a tanto dolore.


E’ un libro, questo di Patruno, che prescinde da tutti i pregiudizi e gli stereotipi a cui ci troviamo difronte quando si parla di religioni tra loro “diverse” come possono essere l’Islam ed il Cristianesimo e, all’interno dello stesso Islam, tra sunniti e sciiti. Ciò è indubbiamente dovuto, o almeno in gran parte, alla formazione dello scrittore che, arruolatosi nella Marina fin da giovane, è divenuto Ammiraglio e ha prestato servizio anche presso le Nazioni Unite acquisendo sul campo una profonda conoscenza dei Paesi mediorientali a cui ha unito indubbie doti diplomatiche.
Con uno stile che a tratti appare “giornalistico” per come vengono descritti gli avvenimenti, senza orpelli o valutazioni soggettive, Patruno racconta la storia di Marcello Guidi, un chirurgo italiano che si reca come volontario in Siria, a Yarmouk dove è situato il più grande campo profughi per i rifugiati palestinesi che, per l’evolversi degli eventi bellici, vengono a trovarsi nel mezzo delle battaglie tra le milizie del regime siriano di Bashar al-Assad e quelle dei ribelli jihiadisti.

Nonostante la dura e crudele realtà che vive ogni giorno Marcello trova, però, anche l’amore nella persona di Asiya, una dottoressa siriana anche lei volontaria con cui collabora nell’assistenza ai rifugiati e con cui intreccia un solido legame affettivo fino al suo arresto da parte delle autorità governative siriane e alle conseguenti torture e al definitivo ritorno di Marcello in Italia. Il lieto fine della storia d’amore, che non vogliamo raccontare per lasciare al lettore il piacere di scoprirlo personalmente, è il simbolo di quanto sia possibile la creazione di un ponte tra due culture e due religioni che  pure nella loro apparente diversità hanno radici e principi comuni, primo tra tutti il valore della pace come bene universale ed il rifiuto della violenza sull’uomo come giustificazione di qualunque ideologia politica o religiosa, concetto recentemente sottolineato anche dal Papa Bergoglio in un suo discorso.

Ci piace, infine, sottolineare la toccante prefazione al libro redatta dalla giornalista italo-pakistana Shabika Shah Povia, nipote acquisita dell’autore, che riassume in poche righe l’essenza profonda di questo libro: “Non devi essere palestinese per indignarti di fronte alle ingiustizie subite da quella gente. Non devi essere siriano perché quella guerra possa farti del male. Non devi essere mussulmano per aver fede in Allah. Non devi essere cristiano per avere pietà e compassione. Devi essere soltanto e ancora umano.”

Per chi vorrà approfondire gli argomenti trattati, si rammenta che il libro sarà presentato dall’autore il prossimo 11 novembre, alle ore 18, presso la Biblioteca Angelica a Roma.