di Riccardo Bramante
Il 20 maggio di sessanta anni fa al Festival di Cannes vinceva la Palma d’Oro il film di un regista fino ad allora poco conosciuto all’estero anche se aveva già vinto un Oscar: era Federico Fellini ed il film “La dolce vita”.
Questo lavoro aveva avuto una preparazione lunga e difficile fin da quando si era trattato di scegliere il protagonista e gli altri personaggi di rilievo; i produttori Angelo Rizzoli e Giuseppe Amato avrebbero voluto nel cast, per ragioni di cassetta, una star di Hollywood come Paul Newman ma Fellini, alla ricerca “di una faccia qualsiasi” finì per imporre, accanto ad una diva già nota come la svedese Anita Ekberg, Marcello Mastroianni che da quel momento divenne l’archetipo dell’indolente e disincantato “latin lover” italiano.
Non meno difficile fu l’accoglienza del pubblico che, sia all’anteprima, nel febbraio 1960, al cinema Fiamma a Roma (oggi purtroppo chiuso) e in prima visione al Capitol di Milano sommerse il film di fischi e di critiche accusandolo di immoralità, con l’appoggio anche di un anonimo commento, ritenuto opera del futuro Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, il quale, sull’ ”Osservatore romano”, il giornale ufficiale del Vaticano, arrivò a titolare il film “La sconcia vita”, anche se poi fu proprio uno dei Cardinali più conservatori, il genovese Giuseppe Siri, ad evitarne la censura totale ma solo il divieto per i minori di 18 anni.
Nonostante tutto ciò il film ebbe un grande successo ai botteghini (forse anche per l’involontaria pubblicità procuratagli dai numerosi commenti moralistici e perfino di natura politica) tanto da coprire già nel primo mese di proiezione i costi che ammontavano a circa 800 milioni di lire dovuti soprattutto alla volontà di Fellini di ricreare negli studi di Cinecittà la Via Veneto in cui sono ambientate molte riprese.
Sembra superfluo ricordare qui la trama del lavoro, anche perché il film può dirsi non avere né un vero inizio né una vera fine e fa pensare piuttosto a un grande affresco pittorico rinascimentale, alla “Scuola di Atene” di Raffaello, come ebbe a dire lo stesso Fellini, dove attorno a un personaggio centrale impersonato dal giornalista Marcello Mastroianni si muovono gruppi ed azioni diverse in cui lui entra divenendone il filo conduttore senza esserne però il vero protagonista ma piuttosto un osservatore, a volte attivo e a volte passivo, di quelle situazioni e personaggi che si avvicendano nei singoli episodi narrati.
Vero protagonista del film è la rappresentazione di un momento storico in cui si chiude un’epoca e se ne apre una nuova, dove al trionfo dei valori umanistici si sovrappone il trionfo dei valori materiali, all’uomo individuo succede l’uomo membro di una società di massa. I nobili, i faccendieri, i paparazzi, i ricchi che popolano i locali notturni ed i poveri nelle strade sono tutti simboli di una vita fatta di apparenza e di inautenticità, in cui tutti però preferiscono rimanere, compreso il protagonista, per debolezza e per inerzia.
E anche se alcuni episodi fanno un non velato riferimento a fatti realmente accaduti (vedi la scena del conturbante ballo di Nadia Gray che richiama lo strip-tease della ballerina turca Aichè Nana al ristorante Rugantino o la sfrenata orgia finale a Fregene che ammicca all’allora molto chiacchierato “caso Montesi”) essi non hanno nessun intento accusatorio ma assurgono soltanto a simbolo del clima molle e decadente che in quel momento permeava la vita mondana soprattutto a Roma e che ha trovato recentemente una eco inaspettata, dopo tanti anni, ne “La grande bellezza” di Paolo Sorrentino.
Per tutti questi motivi “La dolce vita” rimane ancora oggi un film di straordinario interesse per l’ampio respiro dato attraverso un linguaggio cinematografico nuovo, attraverso la pienezza dei suoi ritmi e, in una parola, per la sua poeticità.