di Anna Maria Stefanini
«Potevi sentire le sue canzoni e allo stesso tempo imparare a vivere»
Bob Dylan; del musicista folk Woody Guthrie
Quand’è che si può dire, di una civiltà o di un fenomeno, che è grande? Quando genera una mitologia. E’ stato così per la civiltà greco-romana, il Risorgimento, Pelé, la Harley e la pizza. In effetti la domanda di “mito” è altissima; si direbbe che le persone hanno necessità di miti ed è certo che il mito concorre all’identità individuale e collettiva. Vivi i tuoi giorni fra casa e bottega? Resterai inchiodato all’anonimato più assoluto come un Fantozzi qualunque, senza che venga un Paolo Villaggio a nobilitarti; ma se appena diventi un fan di Paperino questo ti basterà per accedere all’aristocrazia dei super-eroi. Nella speciale mitologia di Woodstock e del rock è opportuno stabilire qualche coordinata di tipo sociologico e culturale. Come tutti ricordano, la musica rock si è sviluppata negli anni ’60 nel Regno Unito e negli Usa e da lì si è sparpagliata per il mondo intero. Tuttavia è negli USA che assume la sua massima caratterizzazione di fenomenologia artistica, sociale e politica. Gli USA sono grandi e in quel mosaico territoriale il rock si è contaminato, diversificato mescolando e rimescolando le tante carte della propria identità espressiva. In questo enorme ribollente calderone si possono a malapena riconoscere alcuni centri focali: la “east coast” dove, sotto la pressione del musicista, poeta, scrittore, premio Nobel Bob Dylan, Lou Reed, Patti Smith etc., è stata particolarmente coltivata l’avvenenza poetica dei testi e dei temi; la “west coast”, con i grandi annunciatori della rivoluzione globale made in California, i favolosi The Doors, Jefferson Airplain, Grateful Dead, Quicksilver M.S.; gli stati centrali (rock-country) e quelli del sud (rock-blues e rithym and blues; vedi alla voce Janis Joplin). A metà degli anni ’60 le vie del rock erano già tracciate; bastava solo mettersi in cammino e trovare gli incroci giusti. Ma non è tutto qui; occorre ricordare che gli USA degli anni 50-60 erano il più grande laboratorio artistico e sociale del mondo; c’era “sulla strada” di Jack Kerouak; c’erano i più fantastici jazzisti di tutti i tempi (Miles Davis, John Coltrane, il bianco Chet Baker…); c’era l’Actors Studio di Elia Kazan, c’era il reverendo King e c’era la Pop Art. In quegli anni il rock prese talvolta il nome di Pop Music (a volte “beat music”, in omaggio ad alcuni importanti poeti e scrittori americani contemporanei, dei quali condivideva molte coordinate artistiche); e non è un caso. Pop è l’abbreviazione di “popular” e la Pop Art era in realtà una scommessa: è possibile fare arte con i prodotti della cultura popolare? Gli artisti “pop” dipingevano la bottiglia di Coca Cola, Marilyn, il frigorifero, i fumetti…; oggi le opere pop si trovano in tutti i più importanti musei del mondo. Cosa fecero allora i giovani musicisti (non soltanto) americani di quel periodo? Presero la più popolare musica allora in circolazione, il “Rock and Roll”, tolsero “roll” e l’impiegarono come materia espressiva per raccontare i due maggiori bisogni delle giovani generazioni: pace e libertà.
Tutto questo poderoso movimento raggiunse la sua massima espressione nel super-concerto dell’agosto ’69 presso la cittadina di Woodstock, nello stato di New York: “3 Days of Peace & Rock Music”, davanti a un milione di giovani. E’ esattamente da Woodstock che si è affermata la mitologia rock: su quel palco si alternarono tutti i più grandi eroi di quella gloriosa epopea. Siate pronti a riviverla.